IL TECTOMANTE
Le vie del borgo brulicavano di gente. Chissà
quanti in passato avevano calpestato la strada lastricata, e chissà quante cose
avrebbero potuto raccontare quelle pietre se solo avessero avuto il dono della
parola….
Picchio
mi saltellò di fianco come una trottola. Anche attraverso la calca, sapevo di
non correre il rischio di perderlo da qualche parte. Mi stava sempre
appiccicato -alle volte anche troppo- come un leccalecca sull’avida lingua di
un fanciullo.
Ad un punto della strada, appena avemmo svoltato al crocicchio di Santa Margherita, il mio fedele aiutante Picchio, dal basso dei suoi quaranta centimetri, alzò il braccio punteggiato di pustole ed indicò il cielo. «Bolle!»
«Non sono bolle» gli spiegai. Bisognava avere sempre una certa dose di pazienza quando si discuteva con un Boggart. «Si tratta di palloni aerostatici. Non mi vorrai dire di non averne mai visto uno.»
Ad un punto della strada, appena avemmo svoltato al crocicchio di Santa Margherita, il mio fedele aiutante Picchio, dal basso dei suoi quaranta centimetri, alzò il braccio punteggiato di pustole ed indicò il cielo. «Bolle!»
«Non sono bolle» gli spiegai. Bisognava avere sempre una certa dose di pazienza quando si discuteva con un Boggart. «Si tratta di palloni aerostatici. Non mi vorrai dire di non averne mai visto uno.»
Scosse il capo, squadrandomi come se gli
avessi rivelato che sua madre era un centauro.
«Ah, be', dopotutto c’è sempre tempo per
imparare cose nuove, dico bene? Nella tana dove sei cresciuto presumo non
esistessero libri. Quelli da leggere, non da mangiare, intendo.»
Il Boggart emise un grugnito che palesò
la sua offesa e si voltò dall’altra parte. Non mi avrebbe rivolto la parola per
almeno mezz’ora. "Poco male. Almeno ora avrò il tempo per concentrarmi
come si deve".Avanzammo per circa un quarto di lega, prima di incontrare
la prima scossa. Fu talmente potente che per poco rovinai a terra inciampando nel
mio mantello nero. «Questa sì che è bella potente!» esclamai in una sorta di
euforia. La persone che erano ancora dentro alle abitazioni uscirono di corsa nelle
strade con gli sguardi impauriti e la tremarella nelle gambe. Gli ignorai e
tirai avanti, fino ad incontrare una grande piazza ottagonale piena zeppa di
grosse tende dai colori variopinti e dalle forme simili a cuspidi. Dedussi si
trattasse della tendopoli dei placchemotati, e che la piazza fosse niente popò
dimeno che Sornion Square, eretta sulle rovine di Old Shem.
Relitti di uomini brancolavano attorno a
noi, mentre avanzavamo verso il centro della piazza. Picchio li osservava con
tristezza, forse provava pena per loro. I bambini giocavano a calcio
utilizzando come pallone un frammento di materiale sintetico, e come porte due
barattoli vuoti. Li evitammo facendo il giro largo. Gli sfasciati edifici devastati
dal placcamoto creavano davanti a noi quello che sembrava proprio essere il cupo
orizzonte di uno scenario post apocalittico. «L’odore è forte» palesai,
tappandomi le narici. «Sembra che la frattura sia prossima.» Bastò che seguissimo
la nube di vapore che gravava a poca distanza dalla nostra posizione, ed in
breve raggiungemmo il sito del cedimento. Ovviamente il lastricato in rovina
era cosparso di macerie. Una frotta di Orologiai era già in posizione sul
ciglio della voragine, alcuni attendevano di assicurare i rampini per calarsi
di sotto, altri presidiavano la zona come se fossero nel loro territorio, cosa
che non era assolutamente. Tre di essi si mossero nella nostra direzione, un
frastuono di pistoni e sbuffi di vapore a ogni misurato passo. Quando mi furono
davanti, il più basso dei tre si chinò per guardarmi in faccia. «La notte è sempre
più buia subito prima dell’alba, nevvero Dean? Sei sempre qui a metterci i
bastoni fra le ruote» mi disse l’uomo a bordo della Meccanmoto, una sorta di
macchina simpatetica che permetteva ai diversamente abili di muoversi come
cavernicoli alle prime esperienze motorie. Erano quelli della “Fine è vicina”
dedussi, sporchi insurrezionalisti che blandivano l’idea che il mondo, o meglio
ciò che ne rimaneva, sarebbe esploso sotto un manto di raggi fotonici
radioattivi che avrebbero spazzato l’intera umanità entro la fine dell’anno
venturo. Essi, a sostegno della loro teoria, facevano di tutto per sabotare i
tentativi del governo e delle corporazioni a esso affiliate di mantenere la
pace nella città, esattamente come stava accadendo in quel caso. "Sono
solo palloni gonfiati vestiti da vecchie stufe", fu il mio personalissimo
pensiero.
Un grosso Orologiaio mi alitò in bocca
del vapore che sapeva di carbone bruciato. Era più grosso di tutti, di altezza
superiore ai due metri e mezzo. «Dean? Ma io ti conoscono, sei quello che ha
messo la toppa sulla Supernova Street.»
«Mastro
Dean» lo corressi. «E, giusto per informazione, quella non ho messo una toppa,
ho semplicemente riallineato le lingue di placca com’erano prima che il Behemoth
cominciasse a fare la muta e le smuovesse dividendole in due come un melone.»
«“Placcamoto”.
È così che lo chiamate voi Tectologi?»
«Tectomanti. Comunque sia, lo chiamiamo
proprio così, messer Rottame.»
L’uomo
fece spallucce, incurante dell’offesa.«Scenderemo prima a vedere se è vero
quello che dici, se il bestione che ingroppa la città sta davvero per fare la
muta, allora significa che la crepa porta direttamente sulla sua lurida
pellaccia.»
Ovviamente
di riferiva al tessuto cutaneo e sottocutaneo che rivestiva i circuiti biosintetici
dell’enorme creatura meccanomorfa che tutti conoscevano come il destriero di
New Shem, il mostro dalla biblica reminiscenza sulla cui groppa sorgeva per
l’appunto la città. Era incredibile pensare che quel groviglioso ammasso di
ferro, carne e sangue sorreggesse e proteggesse la metropoli dai gas
postatomici lasciati come ricordo dalla Quarta Guerra Mondiale all’intera
superficie terracquea del pianeta Terra.
«Potremo
trapanarlo come si deve,» continuò l’Orologiaio «e allora sì che giungerebbe
finalmente il Giorno del Giudizio!»
«Certo,
se non fosse per alcune “sottigliezze”» spiegai indicando l’oscurità a pochi
metri dai miei piedi. «Lì sotto brucia una fornace artificiale di quarantamila
gradi celsius. Dubito che qualcuno di voi riuscirebbe a toccarne il fondo
mantenendo il proprio corpo in una forma anche solo vagamente solida. Perdonate
se vi reco spiacevoli notizie, ma tutti sanno che la “pellaccia”, come la
chiamate voi, del nostro titanico amico è intoccabile da qualsiasi uomo… o
macchina.»
«Abbastanza
torrido, la sotto, ah sì» s’interpose Picchio, grugnendo e saltellando come un
demente.
«Oserei
dire infernale, se premettete» rincarai la dose. «D'altronde i circuiti crioammortizzanti
hanno bisogno di avere vicino una costante fonte di calore per poter viaggiare
alla massima potenza. Altrimenti, be’ potete immaginarlo, surgeleremo tutti
all’istante come le buste dei minestroni preconfezionati. Behemoth compreso.»
Gli Orologiai, i volti colmi di
contrarietà, si disposero in modo tale da formare un muro davanti a noi, una
barriera di sgangherati apparati tubolari, leve e trapezi metallici da cui
spifferavano getti di vapore maleolente. Mi alzai in punta di piedi e lanciai
una rapida occhiata tra i varchi delle loro tenute. La voragine, enorme,
vomitava effluvi violacei e che intorbidivano l’aria. Non potevo permettere che
inquinasse la piazza, altrimenti gli uomini e le donne che l’abitavano
sarebbero stati costretti a traslocare in chissà quale altro buco fetido della
città. Feci un cenno a Picchio, e mossi le dita per formare dei segni magici.
La pietra sotto ai piedi degli Orologiai, come da comando, sobbalzò,
sollevandosi tra crepe neonate e sporgenze ribelli. L’impressione era che un
geyser se ne stesse per uscire dalla terra da un momento all’altro. Gli uomini persero
d’equilibrio e si ribaltarono, sbattendo la schiena a terra tra frotte di
scintille e imprecazioni. «A nanna, ragazzi.» Sapevo che, una volta inchiodati
al pavimento, le Meccanmoto si comportavano come le tartarughe, incapaci di
rialzarsi senza un aiuto estraneo. Gli altri Orologiai, quelli che
pattugliavano la zona, mi guardavano esterrefatti, ora incerti se sbarrarmi il
passo o lasciarmi fare il mio (sottopagato) lavoro. Approfittando del loro stato
confusionale, mi avvicinai alla voragine. Sull’orlo, lanciai lo sguardo sotto
di me, e notai che la fossa scendeva fino a perdersi nell’ombra. I serpentari
avevano nidificato nei solchi e nelle scanalature che tappezzavano le pareti
dell’enorme buco sottoplaccaneo, una massa mobile di uccelli rumorosi e
affamati.
Sospirai, e rivolsi un’occhiata
eloquente a Picchio. Con gli occhi eternamente al di fuori delle orbite, il mio
aiutante annuì. Prese dalla sua saccoccia alcune strumentazioni di misurazione,
tra cui un metro spettrale che sibilava emettendo onde sonore a bassa
frequenza.«Ci aspetta un bel lavoretto» dichiarai. «Dovremmo sbrigarci però,
voglio finire prima dell’ora di cena.»
I
veivoli sfrecciavano nel cielo terso, mentre ci rimboccavamo le maniche. Perché
noi, della corporazione dei Tectomanti, salvatori poco apprezzati della città, sgobbavamo
anche di domenica.