venerdì 5 ottobre 2012

Racconto steampunk "Il Tectomante"







IL TECTOMANTE

Le vie del borgo brulicavano di gente. Chissà quanti in passato avevano calpestato la strada lastricata, e chissà quante cose avrebbero potuto raccontare quelle pietre se solo avessero avuto il dono della parola….



Picchio mi saltellò di fianco come una trottola. Anche attraverso la calca, sapevo di non correre il rischio di perderlo da qualche parte. Mi stava sempre appiccicato -alle volte anche troppo- come un leccalecca sull’avida lingua di un fanciullo.
     Ad un punto della strada, appena avemmo svoltato al crocicchio di Santa Margherita, il mio fedele aiutante Picchio, dal basso dei suoi quaranta centimetri, alzò il braccio punteggiato di pustole ed indicò il cielo. «Bolle!»
    «Non sono bolle» gli spiegai. Bisognava avere sempre una certa dose di pazienza quando si discuteva con un Boggart. «Si tratta di palloni aerostatici. Non mi vorrai dire di non averne mai visto uno.»

Scosse il capo, squadrandomi come se gli avessi rivelato che sua madre era un centauro.
«Ah, be', dopotutto c’è sempre tempo per imparare cose nuove, dico bene? Nella tana dove sei cresciuto presumo non esistessero libri. Quelli da leggere, non da mangiare, intendo.»
Il Boggart emise un grugnito che palesò la sua offesa e si voltò dall’altra parte. Non mi avrebbe rivolto la parola per almeno mezz’ora. "Poco male. Almeno ora avrò il tempo per concentrarmi come si deve".Avanzammo per circa un quarto di lega, prima di incontrare la prima scossa. Fu talmente potente che per poco rovinai a terra inciampando nel mio mantello nero. «Questa sì che è bella potente!» esclamai in una sorta di euforia. La persone che erano ancora dentro alle abitazioni uscirono di corsa nelle strade con gli sguardi impauriti e la tremarella nelle gambe. Gli ignorai e tirai avanti, fino ad incontrare una grande piazza ottagonale piena zeppa di grosse tende dai colori variopinti e dalle forme simili a cuspidi. Dedussi si trattasse della tendopoli dei placchemotati, e che la piazza fosse niente popò dimeno che Sornion Square, eretta sulle rovine di Old Shem.  
Relitti di uomini brancolavano attorno a noi, mentre avanzavamo verso il centro della piazza. Picchio li osservava con tristezza, forse provava pena per loro. I bambini giocavano a calcio utilizzando come pallone un frammento di materiale sintetico, e come porte due barattoli vuoti. Li evitammo facendo il giro largo. Gli sfasciati edifici devastati dal placcamoto creavano davanti a noi quello che sembrava proprio essere il cupo orizzonte di uno scenario post apocalittico. «L’odore è forte» palesai, tappandomi le narici. «Sembra che la frattura sia prossima.» Bastò che seguissimo la nube di vapore che gravava a poca distanza dalla nostra posizione, ed in breve raggiungemmo il sito del cedimento. Ovviamente il lastricato in rovina era cosparso di macerie. Una frotta di Orologiai era già in posizione sul ciglio della voragine, alcuni attendevano di assicurare i rampini per calarsi di sotto, altri presidiavano la zona come se fossero nel loro territorio, cosa che non era assolutamente. Tre di essi si mossero nella nostra direzione, un frastuono di pistoni e sbuffi di vapore a ogni misurato passo. Quando mi furono davanti, il più basso dei tre si chinò per guardarmi in faccia. «La notte è sempre più buia subito prima dell’alba, nevvero Dean? Sei sempre qui a metterci i bastoni fra le ruote» mi disse l’uomo a bordo della Meccanmoto, una sorta di macchina simpatetica che permetteva ai diversamente abili di muoversi come cavernicoli alle prime esperienze motorie. Erano quelli della “Fine è vicina” dedussi, sporchi insurrezionalisti che blandivano l’idea che il mondo, o meglio ciò che ne rimaneva, sarebbe esploso sotto un manto di raggi fotonici radioattivi che avrebbero spazzato l’intera umanità entro la fine dell’anno venturo. Essi, a sostegno della loro teoria, facevano di tutto per sabotare i tentativi del governo e delle corporazioni a esso affiliate di mantenere la pace nella città, esattamente come stava accadendo in quel caso. "Sono solo palloni gonfiati vestiti da vecchie stufe", fu il mio personalissimo pensiero.
Un grosso Orologiaio mi alitò in bocca del vapore che sapeva di carbone bruciato. Era più grosso di tutti, di altezza superiore ai due metri e mezzo. «Dean? Ma io ti conoscono, sei quello che ha messo la toppa sulla Supernova Street.»
«Mastro Dean» lo corressi. «E, giusto per informazione, quella non ho messo una toppa, ho semplicemente riallineato le lingue di placca com’erano prima che il Behemoth cominciasse a fare la muta e le smuovesse dividendole in due come un melone.»
«“Placcamoto”. È così che lo chiamate voi Tectologi?»
«Tectomanti. Comunque sia, lo chiamiamo proprio così, messer Rottame.»
L’uomo fece spallucce, incurante dell’offesa.«Scenderemo prima a vedere se è vero quello che dici, se il bestione che ingroppa la città sta davvero per fare la muta, allora significa che la crepa porta direttamente sulla sua lurida pellaccia.» 
Ovviamente di riferiva al tessuto cutaneo e sottocutaneo che rivestiva i circuiti biosintetici dell’enorme creatura meccanomorfa che tutti conoscevano come il destriero di New Shem, il mostro dalla biblica reminiscenza sulla cui groppa sorgeva per l’appunto la città. Era incredibile pensare che quel groviglioso ammasso di ferro, carne e sangue sorreggesse e proteggesse la metropoli dai gas postatomici lasciati come ricordo dalla Quarta Guerra Mondiale all’intera superficie terracquea del pianeta Terra.
«Potremo trapanarlo come si deve,» continuò l’Orologiaio «e allora sì che giungerebbe finalmente il Giorno del Giudizio!»
«Certo, se non fosse per alcune “sottigliezze”» spiegai indicando l’oscurità a pochi metri dai miei piedi. «Lì sotto brucia una fornace artificiale di quarantamila gradi celsius. Dubito che qualcuno di voi riuscirebbe a toccarne il fondo mantenendo il proprio corpo in una forma anche solo vagamente solida. Perdonate se vi reco spiacevoli notizie, ma tutti sanno che la “pellaccia”, come la chiamate voi, del nostro titanico amico è intoccabile da qualsiasi uomo… o macchina.»
«Abbastanza torrido, la sotto, ah sì» s’interpose Picchio, grugnendo e saltellando come un demente.
«Oserei dire infernale, se premettete» rincarai la dose. «D'altronde i circuiti crioammortizzanti hanno bisogno di avere vicino una costante fonte di calore per poter viaggiare alla massima potenza. Altrimenti, be’ potete immaginarlo, surgeleremo tutti all’istante come le buste dei minestroni preconfezionati. Behemoth compreso.»
Gli Orologiai, i volti colmi di contrarietà, si disposero in modo tale da formare un muro davanti a noi, una barriera di sgangherati apparati tubolari, leve e trapezi metallici da cui spifferavano getti di vapore maleolente. Mi alzai in punta di piedi e lanciai una rapida occhiata tra i varchi delle loro tenute. La voragine, enorme, vomitava effluvi violacei e che intorbidivano l’aria. Non potevo permettere che inquinasse la piazza, altrimenti gli uomini e le donne che l’abitavano sarebbero stati costretti a traslocare in chissà quale altro buco fetido della città. Feci un cenno a Picchio, e mossi le dita per formare dei segni magici. La pietra sotto ai piedi degli Orologiai, come da comando, sobbalzò, sollevandosi tra crepe neonate e sporgenze ribelli. L’impressione era che un geyser se ne stesse per uscire dalla terra da un momento all’altro. Gli uomini persero d’equilibrio e si ribaltarono, sbattendo la schiena a terra tra frotte di scintille e imprecazioni. «A nanna, ragazzi.» Sapevo che, una volta inchiodati al pavimento, le Meccanmoto si comportavano come le tartarughe, incapaci di rialzarsi senza un aiuto estraneo. Gli altri Orologiai, quelli che pattugliavano la zona, mi guardavano esterrefatti, ora incerti se sbarrarmi il passo o lasciarmi fare il mio (sottopagato) lavoro. Approfittando del loro stato confusionale, mi avvicinai alla voragine. Sull’orlo, lanciai lo sguardo sotto di me, e notai che la fossa scendeva fino a perdersi nell’ombra. I serpentari avevano nidificato nei solchi e nelle scanalature che tappezzavano le pareti dell’enorme buco sottoplaccaneo, una massa mobile di uccelli rumorosi e affamati.
Sospirai, e rivolsi un’occhiata eloquente a Picchio. Con gli occhi eternamente al di fuori delle orbite, il mio aiutante annuì. Prese dalla sua saccoccia alcune strumentazioni di misurazione, tra cui un metro spettrale che sibilava emettendo onde sonore a bassa frequenza.«Ci aspetta un bel lavoretto» dichiarai. «Dovremmo sbrigarci però, voglio finire prima dell’ora di cena.»
I veivoli sfrecciavano nel cielo terso, mentre ci rimboccavamo le maniche. Perché noi, della corporazione dei Tectomanti, salvatori poco apprezzati della città, sgobbavamo anche di domenica.