domenica 8 luglio 2018

UNA CORDA D’ORO



UNA CORDA D’ORO


Il ragazzo, udendo i boati provenienti dal cortile delle esecuzioni, si sentì stranamente sollevato. «Sai, è la seconda volta che vengo condannato a morte. La prima è stata per omicidio» disse a uno degli uomini d’arme che lo stavano conducendo al patibolo. Questi rimase muto, ma gli rivolse un’occhiata di disapprovazione e fastidio.
A volte il caso era davvero perfido. Il ragazzo rovesciò la testa all’indietro e scoppiò a ridere. Una risata isterica, liberatoria.
La guardia dal fianco opposto gli mollò una gomitata all’anca. «Razza di stolto! Al tuo posto reciterei le mie ultime preghiere!»
Il prigioniero soppresse un lamento. «Meno male che non ci stai tu, allora. Perché io non ho proprio idea a che divinità rivolgermi affinché possa godere di un piacevole soggiorno all’aldilà. Sempre ammesso che esista.» 
L’armigero serrò bruscamente i denti. Una mano rapida come una folgore colpì il volto del ragazzo, che sarebbe caduto a terra se l’altra guardia non lo avesse afferrato per il braccio. Il ragazzo fece una smorfia, e sputò a terra un grumo di sangue. Non staccò lo sguardo profondo da quello dell’uomo che lo aveva colpito fino che non giunse il grassoccio funzionario delle pubbliche esecuzioni ad avvisare che il processo poteva avere inizio.
«E sia», sospirò il giovane. S’incamminò all’esterno del corridoio in pietra, strascicando a terra le catene che aveva serrate alle caviglie. Alcune guardie lo spintonavano da dietro, mentre altre procedevano davanti per dividere la folla.
Presto intravide la sinistra maestosità del patibolo che s’arrampicava nel grigio spento del cielo, mentre nuvole scure s’ammassavano sopra le loro teste.
Al suo passaggio, alcuni popolani facevano il segno dei Tre Domini, sfiorando con la mano destra la fronte e le spalle. Tra di loro, alcuni venditori ambulanti offrivano cartocci di frittelle fredde arrotolate su un ripieno di marmellata di fragole selvatiche.
Il ragazzo fu sorpreso da tutto quel trambusto. Si aspettava decisamente un’accoglienza meno calda e un pubblico meno folto.
Il funzionario lo attendeva ai piedi della forca. Era un uomo tarchiato e dai baffetti scuri e arricciati. In mano aveva una fetta di pane azzimo, che spezzò in due. Pareva le volesse offrire entrambe al ragazzo.
«Non ho fame.»
«Non è per te» spiegò il funzionario. Un armigero prese le due metà e le infilò nelle brache del giovane, una per ogni tasca.
Corvi e cornacchie svolazzavano disorganizzati oltre le merlature degli edifici in pietra che circondavano un terzo del cortile, sagome nere che volteggiano attorno alla struttura. Il loro strillo era coperto dal vociare della folla. Litigavano per avere un posto privilegiato per lo spettacolo della morte di quello che sarebbe stato il loro futuro pranzo.
Il ragazzo comprese e si concesse un sorrisetto. «Ho capito. Per gli uccelli. È una sorte grama, ma poteva andare peggio.»
L’ometto alzò un sopracciglio. «Peggio di così?»
Il ragazzo annuì. «Ecco il mio destino, diverrò cibo per i corvi. Ma mi concederete un ultimo desiderio prima di spirare? Ho sentito che è viene dato ai condannati con una certa reputazione.»
«Stai vaneggiando.»
«Vorrei che mi si impicchi con una corda d’oro. Ho sottratto sei cervi da sotto il regale naso del vostro re, dopotutto.»
«È ridicolo, sei solo un criminale!» sbuffò indignato l’altro.
«Ecco, domanda un piccolo favore a questi signori che la sembrano sapere tanto lunga e sembrerà che gli si stia chiedendo di dargli la cosa più preziosa che hanno. E, badate bene, non intendo la verginità delle vostre figlie, so bene che quella se n’è andata da un bel pezzo ormai.»
L’ometto parve in procinto di dirgli qualcosa, ma poi si morse la lingua. «Abbiamo parlato abbastanza, mi pare. Toglietemelo di torno» ordinò poi alle guardie, che scortarono il ragazzo fin sopra alla piattaforma del patibolo.
Ad attenderlo già in cima vi era il trombettiere, il banditore, il boia e il prevosto che recitava un qualche passo del Libro Sacro in direzione della folla.
Una moltitudine di teste spuntava oltre il bordo della piattaforma. Nei loro occhi c’era curiosità, in alcuni anche della rabbia, ma il ragazzo sapeva che avrebbero avuto lo stesso atteggiamento con chiunque fosse stato al posto suo.
Per un attimo avvertì tutta la gravità di quel momento. Quel patibolo aveva visto perdere la vita innumerevoli criminali. Non era nulla che questo, una macchina di morte e di svago per il volgo. Scricchiolii. Il legname era vecchio e deformato dalla stagionatura. Puzza di merda. Gli uccelli avevano imbrattato di macchie di escrementi il pavimento e il parapetto.
Non c’era proprio nulla da ridere. La rivelazione arrivò diretta come una stilettata.
Venne piazzato con i piedi sulla botola. Due guardie si collocarono ai suoi lati.
La chiarina suonò una nota lunga e squillante di raccolta.                         
Tutt’un tratto calò il silenzio. Ora tutti stavano con il fiato sospeso per l’eccitazione.
Il banditore iniziò a leggere il proclama ad alta voce: «brava gente di Westcrown. Oggi assisterete all’esecuzione di un cacciatore di frodo. L’uomo qui presente è stato condannato all’impiccagione con la grave accusa di essersi intromesso senza autorizzazione nel parco privato di Sua Maestà il Re e di aver ucciso e sottratto sei esemplari di cervo, successivamente venduti al mercato nero. Che Dio possa giudicarlo equamente ed abbia pietà della sua anima.»
Poi il funzionario lanciò un’occhiata al boia. «Possiamo procedere.»
Il prevosto di Aoria, un beone dalla barba grigia, alzò una mano e benedisse il condannato col il segno dei Tre Domini. Poi si allontanò.
Il boia, nonostante il cappuccio, mostrava un’espressione annoiata. Togliere la vita altrui per lui era solo una formalità. «Le tue ultime parole?» gli chiese. Un vero professionista.
«Fammi pensare. Ecco, ci sono.» E alzò la voce, cosicché tutti potessero sentirlo: «e come disse Lord Lockheart, addio, mondo crudele. Ai miei posteri non lascerò altro di me che le parole di un morto e il rimpianto di non avergli dato ascolto quando potevano.»
Sguardi di trepidante attesa sotto di lui. Provò disprezzo per ciò che lo circondava.
Ebbe il tempo di gettare un rapido sguardo sul volgo, prima che il buio del cappuccio calasse per sempre sui suoi occhi. Fece in tempo a scorgere un gruppo striminzito di nobiluomini a cavallo. Non ne conosceva nessuno, né gli importava del perché fossero venuti ad assistere alla sua impiccagione. Aveva rubato beni di proprietà del re, certo, ma restava solamente un misero bracconiere.
Attraverso il sacco che gli copriva il volto, poteva avvertire la gradevole brezza che si era levata da poco.
Sentì il boia che gettava la corda oltre la trave, la ruvida canapa che gli veniva passata attorno al collo, serrandolo in modo che il nodo rimanesse sospeso appena sotto l’orecchio sinistro.
Respiro ed inspirò. In fondo non sarebbe stata una gran cosa.
Attese che la botola si spalancasse, di precipitare nel vuoto. Si chiese che rumore avrebbe fatto il suo collo, se avrebbe scalciato come un lattante prima di spirare.
Non accadde nulla di questo.
L’unico suono che giunse fu quello di una voce di un uomo, in direzione della folla. «Lascialo andare.» Imperativa, categorica.
La folla liberò un sospiro sibilante.
«E perché mai dovremo farlo?» borbottò il funzionario dopo alcuni istanti.
«Perché non c’è redenzione nella condanna. Specie se è definitiva come in questo caso» rispose lo sconosciuto con tono pacato.
Il ragazzo sperò che la finissero in fretta. Se doveva morire, preferiva che non ci fossero inutili lungaggini.
«Permettetemi di dissentire, ma non sono affari vostri» fece il funzionario con voce impastata.
«Da questo momento, sì.  Rivendico la vita di quell’uomo. Egli può servirmi più di quanto lo farebbe a voi e al vostro re da morto.»
Il ragazzo serrò i denti. Odiava quell’attesa. Era una sensazione che ti arpionava allo stomaco e che ti tirava giù, in un pozzo sempre più buio e profondo.
«E chi siete per permettervi di avanzare una simile pretesa?» chiese il funzionario alla voce nella folla.
«Non è chi sono ciò che importa, ma chi rappresento. La Santa e Divina Chiesa del Credo della Vera Luce. Un potere che, converrete con me, supera quello temporale di qualsiasi regnante devoto come presumo sia Sua Maestà.»
A quella rivelazione dai toni sfrontati giunse un nuovo sibilo dal popolo, stavolta più pacato e sommesso.
«A-avete un documento che può attestarlo?» La voce dell’ometto si faceva sempre più tentennante.
«Ho una pergamena marchiata dal sigillo papale e firmata dal Sommo Pontefice in Persona. Ho il permesso, per legge, di poter svuotare le carceri di ogni stato confederato, se lo volessi. Gradite vederla?» chiese l’uomo misterioso. Sembrava molto sicuro di quello che diceva.
Il ragazzo non riuscì a credere alle sue orecchie. Cosa mai poteva volere la Chiesa da uno come lui?
Trascorsero alcuni minuti, nei quali probabilmente la pergamena venne posta all’attenzione del funzionario. «Dovrò verificare.»
«Potete fare tutte le prove di autenticità che volete» replicò la voce misteriosa, ora più vicina al ragazzo. «Ma voglio che sia messo lontano dalla forca.»
«S-sarà fatto» bisbigliò l’altro. Poi diede il comando alle guardie. «Fate come ha detto.»
Due armati avevano afferrato il ragazzo per le braccia. Scesero adagio dal patibolo, mentre la folla mormorava delusa.
Una volta sceso, fece alcuni passi in avanti fino a che qualcuno non lo fermò con un gesto.
«Nessuna mossa avventata», bisbigliò una voce, quella di un armigero, «o ti rimandiamo indietro.»
Il ragazzo non disse niente, ma si lasciò guidare senza opporre resistenza.
«Non potete!» gridò qualcuno.
Senza perdere altro tempo, il ragazzo venne condotto lontano dalla folla lamentosa. "E anche oggi, si campa un altro giorno."


Può un sol uomo tenere testa al destino? Può un uomo sfidare la sorte, o essere abbastanza astuto da ingannarla?
Vi era un ragazzo disteso a terra, oppresso dalla pesantezza delle sue catene. Che fossero solo le catene di tangibile consistenza ad opprimerlo, oppure catene di tutt’altra natura, nessuno tranne lui avrebbe potuto dirlo.
La sua cella era funzionale, per quanto ordinaria. Una sottile fessura in cima a una parete lasciava entrare la luce, i muri di pietra trasudavano acqua e muschio, e una pila di paglia sporca marciva nell’angolo.
Era un ragazzo magro ma muscoloso, con la barba corta e capelli lunghi arruffati. Fisicamente, appariva come un giovane uomo di diciannove anni, fatto e finito, con le gambe lunghe, l’ampio torace, i capelli neri e l’aria torva. Indossava solamente una camicia di stracci e un paio di pantaloni di cuoio.
Il ragazzo rifletteva. Forse sulla sua vita, un vita che quel giorno qualcuno che non conosceva aveva deciso di salvare. In cuor suo non sapeva se avesse fatto bene, né se aveva voglia di sprecare ancora una volta l’opportunità che gli era stata concessa. Il respirare, in questa grama esistenza, gli iniziava a stare stretto.


Venne scarcerato un’ora più tardi. Per un momento, il ragazzo era stato certo che l'avrebbe picchiato, invece il funzionario aveva ordi­nato alle guardie di levargli catene e di lasciarlo andare. Appena libero da quelle briglie di metallo, cadde al suolo. Le gambe gli avevano ceduto come fossero state di pastafrolla.
Si rimise in piedi a fatica, mentre l’ometto gli intimava di seguirlo in una stanza appartata.
«Immagino non riavrò le mie cose» disse il giovane, tremando per lo sforzo.
«Le tue cose?» sbuffò l’altro. «Al tuo posto sarei grato di potere ancora respirare, sporco d’un ladro!»
Le guardie lo condussero fino ad una stanza circolare arredata da un tavolo e due sedie.
«Eccoti qui…» disse l’uomo che li attendeva.
Asciutto, alto e muscoloso, doveva aver appena passato le trenta primavere. Indossava un completo di pelle, corredato di maniche e guanti, che arrivava alle cosce. Le ginocchia erano difese da placche di cuoio. Alla cintura portava una lunga spada a doppio taglio finemente lavorata, unico simbolo di quello che doveva essere il suo ordine. I lineamenti marcati, uniti all’insolita capigliatura argentea, gli conferivano un aspetto autorevole. La sua espressione, segnata da una profonda cicatrice su un sopracciglio, incuteva un senso di rispetto, se non proprio di timore.
Solo Dio, o qualunque altra cosa governasse le leggi del mondo, sapeva cosa sarebbe accaduto al ragazzo se non fosse intervenuto quel singolare quanto inquietante tipo. Eppure, non aveva l’intenzione di dovergli alcuna riconoscenza.
Qualcuno con indosso il saio avrebbe scongiurato in un patto con il Diavolo, con la differenza che lui non aveva firmato alcun documento, benché meno con il suo sangue.
Il funzionario porse all’uomo misterioso un rotolo di pergamena. La bolla papale. «È autentica… in tutto per tutto.»
«Quel documento deve valere parecchio…» azzardò a dire il prigioniero.
«Morditi la lingua, insolente!» Una delle guardie gli mollò un colpo al costato che lo fece cadere nuovamente a terra. Il ragazzo si mise in piedi, facendo del suo meglio per tollerare il dolore e la stanchezza.
«Voi… ne siete davvero sicuro?» mormorò l’ometto mentre capelli d’argento riponeva il documento in una tasca. «Quest’uomo è colpevole di un crimine efferato! Un nemico giurato di Aoria e tutte le sue genti.»
«Aoria è un regno che giura da quasi cinquecento anni assoluta fedeltà al Credo, nonché a Vespri Solenni e al Papa, per quel che mi risulta» disse l’uomo, socchiudendo gli occhi.
«Quest’uomo non merita la vostra pietà, mio lord.»
L’altro sogghignò e batté sulla spalla dell’ometto, di qualche spanna più basso di lui. «Talvolta la redenzione sta nell’espiazione. Un uomo in salute come lui può ancora servire bene la causa di Nostro Signore là dove la sua luce deve ancora giungere, oltre la confortante luce della Confederazione.»
Il funzionario strabuzzò gli occhi. «Vi riferite alle terre degli eresiarchi?»
«È lì dove la nostra missione ci vuole» ammise capelli argentei.
Il funzionario liberò un sospiro di sollievo. «Perdonatemi mio Lord. Quest’uomo è condannato da un giusto processo presieduto proprio dal sottoscritto. Prima d’ora, non era mai accaduto che un prigioniero fosse rivendicato al momento della condanna.»
«È un protocollo insolito, ne convengo, messere» espresse il suo interlocutore. «Ma insisto nel ribadire che quest’uomo sconterà la sua pena in un altro modo, tanto che potrebbe rimpiangere la forca, se ciò può consolarvi.»
Il funzionario iniziò a tormentarsi le falde della veste, come turbato d’un pensiero. «Capite che avete recato grave danno all’autorità del re con questo gesto. Avete provocato il suo malcontento .»
«È comprensibile. Avete riferito a Sua Maestà che egli sta recando un grande servigio al suo Credo, lo stesso Credo che ha riconosciuto davanti agli uomini e a Dio il suo potere temporale su questo regno, la sua monarchia?»
L’ometto fece spallucce. Esistevano poteri così autorevoli che al loro cospetto anche i re dovevano chinarsi e mostrarsi umili. Soprattutto se l’influenza del Papa era l’unico deterrente a un’invasione su larga scala da parte di Vvardèon. «Non è in quanto all’aver perso un’occasione per impartire al popolo un prezioso quanto mai banale ammonimento, ma il fatto che sia stato tutto ordinato con così poco preavviso…»
Mentre parlava, l’uomo dai capelli argentei esaminò il prigioniero aggrottando la fronte. «Quest’uomo è stato confessato?» chiese infine.
Il funzionario lo guardò il ragazzo ammiccando, pieno di sospetto. «So che ha visto un prete, mio lord.»
«Non sono un lord. Ma apprezzo la vostra cortesia, dignitario» tagliò corto l’altro. «Chiamatemi solo Lauren.»
L’ometto non osò fiatare. Lanciò al ragazzo un altro sguardo che promet­teva solo malevolenza.
«Sono stato confessato, benedetto, battezzato e tutto il resto» mentì il prigioniero.
Lauren andò a prendere il mantello nero posato su una sedia. «Credo possiamo trovare un accordo. Se lo ritenete necessario, posso risarcire il danno che quest’uomo ha recato al re, cosicché ognuno potrà uscirne soddisfatto da questa situazione.» Se lo fece scivolare con un ampio gesto dietro alla schiena e si allacciò la fibbia al collo.
Il funzionario alzò le mani. «Non è questione di denaro. È-è che è solo un ladro. Perché mai dovrebbe interessare alla nobile e santissima Sede?»
«Caro fedele, può capitare che Dio stabilisca cose delle quali noi non siamo in grado di discernere il Disegno, ma che eppure c’è. Egli ama l’empio come il pio, poiché ogni pecora smarrita che ritrova la via è cosa a Lui gradita e fonte di ogni bene.» Lauren si esibì in un profondo inchino, afferrò il ragazzo per un braccio e uscirono insieme dalla sala, stroncando sul nascere qualsiasi altra discussione.
Dai loro supporti lungo le pareti e i colonnati, le torce illuminavano la scalinata che conduceva all’uscita delle carceri.
«Devi avere una faccia tosta di proporzioni abissali per aver fatto quello che hai fatto» si espresse Lauren, mentre camminava senza volgergli lo sguardo.
Ora che erano soli, il ragazzo lo osservò meglio. Nel ricambiare a sua volta lo sguardo, l’uomo al suo fianco gli trasmise una fredda metodicità.
«Già, non credevo mi sarebbe riuscito così bene. Con chi ho l’onore di parlare?» Il suono ovattato delle parole si protese lungo la pietra.
 «Con Lauren Nivhelm o, se preferisci, con colui che ti ha salvato la vita.» La voce di Lauren era calma. «Non hai idea di quanto sei stato fortunato ad avermi incontrato sulla tua strada, ragazzo.»
Il ragazzo annuì. «Buono a sapersi.»
«Immagino che anche tu te ne compiaccia.» Lo sguardo di Lauren frugò il suo. «O forse pensi io ti abbia in qualche modo arrecato danno togliendoti dal patibolo?»
«Ci devo ancora pensare.» Il ragazzo alzò le spalle. «So che vuoi sapere il mio nome, ma non è importante. Chiamami come ti pare.»
«Capisco. Alcuni della nostra compagnia usano nomi fittizi o nomignoli per nascondere la loro identità. Molti di loro erano come te, destinati alla forca» spiegò Lauren, e sembrò non intendesse aggiungere altro riguardo ai suoi misteriosi compagni.
«Il tuo qual è?»
L'espressione di lui si fece ancora più cupa. «Lo Spettro.»
«Temibile.» Il ragazzo parlò con tono irriverente, ma dentro di se percepì un brivido glaciale, come se quel nome potesse davvero concretizzarsi nell’individuo al suo fianco.
 «I miei nemici lo pensano. Ma a te darò un nome più semplice da portare.» Il corridoio rimandò gli echi della voce di Lauren. Suonavano glaciali, come i suoi occhi e le sue maniere. «Sai cosa mi ha colpito di te? Sappi che non libero condannati a morte ogni giorno, no. Solamente se questi riescono in qualche modo a colpirli e a mostrarmi qualcosa di loro, perché nella morte ogni anima è spogliata, indifesa, e si mostra per quello che è.» Poi parve pensarci un poco sopra. «Il tuo nome sarà Lockheart» decise infine.
«Come il Conte Lockheart, protagonista de “I giorni perduti” di ser Flubert Seymour» rilevò il ragazzo compiaciuto. Chissà come, quel nome gli suonava già famigliare. Gli piaceva.
Lauren annuì. «Ho riconosciuto la tua citazione. Come Lord David Lockheart, sei stato punito e messo al patibolo. “Addio mondo crudele”, è la celebre frase che pronunziò alla corte del boia, ma in cuor suo stava condannando alla dannazione eterna ogni uomo, donna e bambino che lo vedeva morire in quella piazza.»
Il ragazzo conosceva bene quel romanzo. E ancor meglio, conosceva Seymour, fine letterato e noto eversivo, nonché sottile accusatore dei soprusi perpetrati dalla Chiesa nel corso dei secoli. Frode, lassismo, abusi erano alcune fra le colpe più ricorrenti che le sue parole –e i suoi personaggi– condannavano. «Mi sorprende che tu abbia letto quel libro.» Sorte davvero bizzarra. Chi l’avrebbe mai detto che un giorno l’aver letto quel ragazzaccio di Seymour gli avrebbe salvato la vita?
Per la prima volta Lauren sorrise. «Non mi conosci ancora.» Sembrava che l’idea che un uomo come lui potesse conoscere opere letterarie poco conosciute e per di più aperti manifesti di denuncia contro il Credo lo divertisse. «Sappiamo leggere e conosciamo entrambi “I giorni perduti”, non è una semplice coincidenza, Lockheart.»
«Se non lo avessi citato come mie ultime parole, ora sarei già bello che morto, è questo che vuoi dirmi?» chiese il ragazzo.
Lauren sorrise di nuovo. «Lascio a te il beneficio del dubbio» si limitò a rispondere.
Il ragazzo serrò i denti, mentre un armigero apriva la porta di fronte a loro, permettendo ai due di lasciare il corridoio delle segrete.
Lauren lo lasciò passare rispettosamente per primo, anche se al ragazzo non piaceva questa sua sorta di inappropriata gentilezza. La cosa che più lo frustrava, era il fatto di non riuscire a comprendere appieno quell’uomo. Entrarono in un salone d’ingresso dall’aria spartana. Si diressero verso l’uscita.
«Dopotutto, questa giornata si sta rivelando piena di sorprese» considerò il ragazzo. Squadrò il suo nuovo compagno. Lo Spettro era un uomo alto, più alto persino di lui, giusto di mezza spanna. Si chiese se, in un duello fra loro, si sarebbe mai potute dire che combattevano ad armi pari. «Lockheart mi sta bene. Ora cosa mi succederà?»
Lauren si fermò di colpo, soffermandosi accanto alla porta. «Conoscerai il tuo destino. Perché, che ti piaccia o no, ora tu mi appartieni.» La guardia nel frattempo iniziò a girare la chiave nella serratura.
Il ragazzo sospirò ma annuì. «Altre catene. Ma questa volta credo che mi divertirò.»
Lauren si espresse in un nuovo sorriso. «Oh, non ne ho il minimo dubbio, Lockheart. Il minimo dubbio.»
Dopodiché, si allontanarono finalmente dall’insopportabile tanfo e dall’ingente umidità che impregnavano le prigioni di Westcrown.

martedì 27 marzo 2018

CACCIATORI DI LEGGENDE: PROLOGO




“Nessuna speranza, nessun amore, nessun lieto fine.
Prima e dopo di me, solamente lo schifo di cui è intriso il mondo.”
Epitaffio inciso sulla tomba di ser Flubert Seymour.




PROLOGO:
IL CAVALIERE MORENTE


Silenzio.
È ciò che accompagna la morte.
La consapevolezza della fine non giunge mai, come se il pensiero s’arrestasse di colpo.
Silenzio.
Non si sente più il battito. Vi è una quiete improvvisa, vuota, che riecheggia accompagnata dal vento, spirando attraverso gli alberi, facendo vacillare gli arbusti più giovani. Vi è il rassicurante sapore di casa, di ricordi di un’intera vita vissuta, di foglie autunnali che vorticano lungo un viale deserto, di ragazze sudate che danzano durante la festa di mezza estate. Ricordi di conversazioni e di risa che avrebbero riempito la solitudine dell’anima. Il fracasso e gli schiamazzi nelle buie serate invernali.
Silenzio. Nessuna musica. Ora è più forte nella mente.
Silenzio. Un vuoto che riempie quello più grande. Presto arriveranno altri suoni, esploderanno come in un’orchestra di fanfare.
Silenzio. Odore di carcassa. Ondate soffocanti di putrefazione. La paura che paralizza i muscoli e inaridisce la gola.
Odore di fiori recisi e regalati ad una donna. Il porticato e il giardino odoroso di gelsomino. Odore della pelle di lei, liscia come la seta, il supplizio di non poterla più accarezzare. Il biondo dorato dei suoi capelli, fasci che trattengono la luce. I suoi occhi scuri e vivaci, la curiosità che proviene da chi ha voglia di scoprire cose nuove.
Silenzio. Avvolge tutto dentro di sé. Un oceano profondo e vasto come il gelo che annuncia la fine del mondo. Pesante come un macigno.
Il sapere di essere solo basterà a calmarlo, a riportarlo alla ragione. Lontano, si fa sempre più lontano il fischio del vento.


Gli occhi si spalancarono nella coltre bianca.
Un alto manto di neve ricopriva ogni cosa. Il vento spazzava il fianco della collina, ululando nella tormenta. Gli alberi appesantiti dalle coltri lasciavano cadere falde di neve con tonfi sordi.
Solo lui osava sfidare la furia imperversante della natura. Procedeva lentamente nella neve lungo un sentiero immaginario che seguiva il margine del bosco, ai piedi dell’altura.
Strati di coltri ricoprivano il suo corpo, mentre la bruna cavalcatura lo precedeva arrancando stordita dal gelo.
Mancavano pochi giorni al sorgere dell’inverno, e il clima avrebbe raggiunto le soglie più basse dell’anno. Sugli ultimi contrafforti dei Monti della Fiamma Bianca, il freddo riusciva a rendere gelata pure l’acqua corrente. Chi in quel periodo lasciava i Regni Spezzati per entrare nelle terre dei Re Dimenticati avrebbe facilmente incontrato la morte sul suo cammino.
Il destriero dal manto punteggiato di cristalli gelati si spingeva lento come il suo padrone, il battito del suo cuore che diveniva pian piano sempre più debole.
Spesso la marcia dell’uomo si arrestava. Alzava la testa come fosse in ascolto di qualcosa o per distendere la schiena tesa per lo sforzo, poi riprendeva a camminare.
Il vento montava sempre più, rendendo il suo mantello una vela ingovernabile. Costava fatica sempre maggiore cercare di serrarlo intorno al collo.
Dei lamenti cavernosi giunsero alle sue orecchie amplificati dal vento. Appartenevano a delle creature aberranti che l’uomo conosceva e non desiderava incontrare.
Ripararono al più presto nel bosco, sebbene il cavallo ebbe qualche difficoltà a percorrere i primi passi all’interno della selva.
I suoni gutturali si fecero sempre più vicini, fino a che l’uomo non vide le imponenti sagome umanoidi attraversare il versante provenendo da parte opposta alla loro. I loro passi risuonavano attutiti dalla neve e interferiti dalla bufera. Se non si fossero nascosti, li avrebbero incontrati certamente, e allora solo un miracolo avrebbe potuto salvarli.
Attesero fino a che non giunse il silenzio. Rimase solo l’impeto della tempesta che sovrastava la notte. Ma in quella bolla l’uomo avvertiva la quieta consapevolezza di poter terminare il suo viaggio sereno.
Decise di proseguire il viaggio fra gli alberi. Ora il passo diveniva più cauto per via del terreno, irregolare sotto la neve. La selva attutiva la morsa del vento, ma il percorso scelto esigeva più forze, forze le quali sia l’uomo che l’animale avevano esaurito.
Si guardò attorno. Alla sua destra il terreno accennava a una depressione, mentre più avanti s’intuiva l’inizio di una scarpata. Strattonò appena le briglie della sua cavalcatura e la condusse fin là, giungendo a scorgere un incavo fra le poderose radici di una quercia, abbarbicato sull’orlo di un declivio.
Cavaliere e destriero trovano riparo nell’anfratto naturale. L’uomo si lasciò andare in quella nicchia di tepore, sollevato di avere accanto a sé l’animale.
Chiuse gli occhi, pronto ad abbandonare per sempre la sua vita, ma subito si riscosse. Ricordò qualcosa che pensieri più imminenti avevano obliato dalla sua mente. La sua mano, impacciata dal guanto, frugò tra gli strati di coperte, fino a trovare un sacchetto di pelle legato da un laccio di cuoio. L’uomo allentò il laccio con reverenza e rovesciò il contenuto del sacchetto sul palmo della mano.
Una scintilla di luce si accese subito, illuminando la notte. Poi, dopo il picco intenso, la luce sembrò lentamente affievolirsi, fino ad acquietarsi in un tremulo brillio. La stilla di luce pulsava come una lucciola che si librasse sulla sponda di lago.
Gli occhi dell’uomo sorrisero, come persi sulla scia di immagini lontane.
Sussultò. La parola divenne muta, un assolo di silenzio.
Ora poteva udire i musicisti intonare la sinfonia.